Da Addis Abeba, la capitale più alta dell’Africa, fondata nel 19° secolo dall’imperatore etiope Menelik II ai piedi del Monte Entoto, si viaggia per 500 km in fuoristrada verso il profondo sud fino alla Valle dell’Omo, il fiume omonimo che dall’altopiano etiope attraversa profonde valli selvagge prima di sfociare nel lago Turkana nel nord del Kenya, in una terra dove ogni venti secondi una persona muore a causa della mancanza di acqua e, in conseguenza di questo, anche per le insufficienti condizioni igieniche. Oltre 100.000 italiani, viaggiatori e non turisti, visitano ogni anno la Valle dell’Omo, esplorata alla fine del 1800 dal parmense Vittorio Bottego, dove trentaquattro etnie di orgine nilotica, differenti l’una dall’altra, vivono in villaggi sperduti fermi alla preistoria in capanne di legno, a volte talmente basse da non permettere di stare in piedi, senza corrente elettrica né acqua potabile, sfruttando tecniche di sostentamento che si alternano e completano a vicenda con il mutare delle stagioni e delle condizioni climatiche: le coltivazioni di sorgo, mais, fagioli nelle radure alluvionali lungo le rive dell’Omo, di cui si occupano le donne, e l’allevamento di mandrie di capre e zebù, affidato agli uomini. Quasi un ritorno alle origini, quel mal d’Africa mai ben definito ma così potente da cambiare la vita. I Karo, i Kwegu, i Mursi e i Nyangatom abitano stabilmente lungo le sponde del fiume, da cui dipendono totalmente mentre altre etnie, gli Hamar, i Chai o i Suri e i Turkana vivono nell’entroterra in sperduti villaggi dove l’istruzione è ancora un miraggio, la mortalità infantile alta e i neonati nati “imperfetti” uccisi subito.
Popoli primordiali, seminomadi, non ancora addomesticati, dove però è possibile essere accolti in casa per fare quattro chiacchiere e scoprire le reciproche diversità. L’Etiopia, dal greco aith’ops, la terra degli uomini dal volto bruciato, grande quattro volte l’Italia, un crogiolo di popoli che parla oltre 80 lingue, è l’unico Paese africano ad non essere mai stato colonizzato; ci provò per ben due volte l’Italia: il primo tentativo culminò nella sconfitta militare di Adua, nel 1896, inflitta dalle truppe di Menelik e una seconda volta sotto il regime di Mussolini nel 1935 ma, nonostante la superiorità negli armamenti e l’uso dell’aviazione militare che l’Etiopia non aveva, incontrò una forte resistenza che bloccò la sua avanzata.
La mancanza di strade, la povertà e l’isolamento geografico hanno preservato la purezza delle popolazioni primitive. Non hanno niente ma sorridono sempre, anche le donne, spose ancora poco più che bambine. Nei loro occhi, scuri come la pece, non c’è malizia, non c’è invidia, non c’è arrivismo. Si viaggia attraverso un giacimento antropologico immenso. Nei villaggi, il pagamento di 5 birr per una foto (un euro equivale a 21 birr) è forse l’unica fonte di remunerazione, in una regione dove le banche non esistono. Il corpo, l’unica cosa che possiedono, si dipinge, si scarifica in nome di riti per noi incomprensibili per esprimere potenza virile, spregio del dolore, appartenenza ad una tribù. L’apparire prima di essere come nella nostra società, anche se con sfumature diverse. Con mutilazioni, differenti da etnia ad etnia, per esaltare la bellezza fisica, eseguite anticamente forse per esigenze rituali e propiziatorie. Usanze in pratica ancora oggi, come il disco labiale sfoggiato dalle donne Mursi e Surma, nate con lo scopo di renderle meno belle e abbassarne il valore durante la “tratta degli schiavi”, o la deformazione del lobo delle orecchie praticata dai Surma di ambo i sessi e dalle donne Mursi.
Da Arba Minch (in amarico, la lingua ufficiale, “40 Sorgenti”), su un’altura da cui si scorgono i laghi Chamo e Abaya, si viaggia verso il villaggio di Chencha, a oltre 2000 m, dove il popolo Dorze coltiva il falso banano, dalle cui radici le donne estraggono una polpa che viene macerata a mano per preparare il kotcho, il pane tradizionale. In Etiopia si mangia tutti insieme e dallo stesso vassoio, in un momento di grande condivisione che culmina con il rito del caffè, il “bunna”, che qui è nato.
Lungo la strada montana si sosta a Konso, Patrimonio Unesco dal 2011 per il paesaggio culturale, con statue lignee antropomorfe, sul fiume Sagan, che prende il nome dall’etnia omonima, la prima in Africa a coltivare con campi a terrazzamento, che vive arroccata sulle falesie in unità familiari divise da recinzioni in legno destinate a granaio, deposito, cucina e abitazione. L’ingresso è segnalato da una capanna con una volta enorme, il fulcro della vita sociale, dove gli anziani si riuniscono per prendere le decisioni. Ogni giorno è uguale all’altro, scandito dai ritmi della natura. Al tramonto, senza corrente, si rientra nelle capanne. Nulla sembra turbare la loro tranquilla esistenza e le loro secolari tradizioni. Un’esperienza forte, quasi una lezione di vita, per chi, come noi, è abituato al superfluo, di cui restano, anche a distanza di tempo, i sorrisi, mai forzati, e i gesti spontanei. In Etiopia il funerale è una festa dove tutti sono invitati a un banchetto che dura tre giorni: familiari, amici, conoscenti, sconosciuti. Da Konso si prosegue verso il Mago National Park, un’area protetta dal 1971, prevalentemente savana con zona semidesertica nella parte più meridionale, abitato da scimmie colubus, antilopi, bufali e oltre 300 specie di uccelli. Muta il paesaggio ma non il senso di libertà, dove uomini e animali, fuoristrada e camion, presente e futuro, si spostano senza scalfirsi.
Lungo il ciglio della strada, quasi sempre sterrata, un flusso migratorio cammina, scalzo e senza fretta, anche per decine di chilometri, dal villaggio fino al mercato, vivace e colorato, per vendere i loro prodotti in un Paese dove tutti i trasporti avvengono via terra, privato dallo sbocco sul Mar Rosso dalla secessione dell’Eritrea nel 1993. Un pittoresco andirivieni di un mondo lontano, non intristito e globalizzato dal progresso, che cerca di restare se stesso. Contrattare è d’obbligo. Così come parlare prima di comprare. Il mercato come unico punto di incontro, dove la fretta perde ogni significato. Ciascuna etnia si riconosce per le acconciature e i tessuti indossati, intrecciati con colori forti e penetranti. La lunga pettinatura femminile delle donne Hammer, ottenuta dall’intreccio di sottilissime treccine spalmate di burro, resina, polvere di ferro e argilla rossa, appoggia su grosse collane, la cui pesantezza determina il potere contrattuale all’atto del matrimonio.
La Cerimonia del Salto dei Tori, il rito di iniziazione maschile all’età adulta, che si protrae fino al tramonto, rappresenta uno degli eventi più significativi della cultura hamer e per tutte le comunità che abitano nella valle dell’Omo. I giovani devono dimostrare forza e coraggio saltando sul dorso di sette tori, sistemati uno di fianco all’altro, da cui devono scendere e salire quattro volte senza mai cadere. Solo così un naala diventerà un daala, un uomo a tutti gli effetti.
Un mondo lontano ma autentico, destinato a scomparire per la costruzione, già in corso, di Gibe III, un’enorme diga destinata a distruggere un ambiente ecologicamente fragile e le economie di sussistenza legate al fiume e ai cicli naturali delle sue esondazioni. La tecnologia sta arrivando ma non sempre porta felicità. La ricostruzione dell’Etiopia, piegata dal sottosviluppo, è partita dalla capitale. Dove prima le baracche rappresentavano l’80 per cento delle strutture abitative, intervallate qui e là da microcosmi residenziali per ricchi, ora il programma governativo Grand Housing ha progettato di costruire annualmente 50 mila condomini, con cemento importato dalla Cina, per dare casa al 50 per cento della popolazione che oggi vive negli slum o nelle fatiscenti case governative affittate per pochi birr al mese senza acqua, senza elettricità, senza servizi.
Per informazioni:
www.ethiopianairlines.it
Laura Colognesi