All’inizio degli anni Sessanta, a New York, va di moda il folk: i giovani poeti si ritrovano nelle coffee-houses del Greenwich Village. Uno di questi è un ragazzino ebreo con un cappello alla Huckeberry Finn che è appena andato a trovare il suo idolo, ricoverato in ospedale e il cui sogno si avvera finalmente da lì a poco: diventare l’erede spirituale del più grande folk singer della storia americana: Woody Guthrie. Il cerchio si chiude nel ’63: quel ragazzino, metà hobo e metà bohemien, diventa Bob Dylan. Simbolo e coscienza di una generazione, quella degli anni ’60, considerato una figura quasi profetica, autore preferito dalla gioventù americana in lotta per i diritti civili dei negri, per la libertà d’espressione, contro la guerra in Vietnam e per la pace, Bob Dylan ha attraversato la storia del rock come nessun altro. Le sue canzoni divennero inni pacifisti e lui diventò portavoce di quella generazione, menestrello elevato a poeta, enigmatico e sfuggente, in perenne contraddizione con la propria immagine, personaggio della commedia dell’arte. Passato attraverso i maggiori riconoscimenti e le critiche e le contestazioni più violente, cercando di sfuggire al suo stesso mito e alle mode per non restarne intrappolato.
Dalla canzone folk di protesta degli inizi, voce ruvida e nasale, vagabondo, imitando il suo idolo, alla svolta elettrica con conseguente contestazione da parte dei fans più puristi, alla canzone d’amore, al blues, allo spiritual, al raggae… ogni volta cambiando, modificando tutto, cogliendo di sorpresa critica e sostenitori.
La sua carriera si può dividere in varie fasi: un primo periodo folk, con rapidi schizzi ed invettive a carattere sociale e politico ( “The freewlin’ Bob Dylan”). Chitarra, armonica e voce affilata come un rasoio, Già incanta con le sue metafore e la capacità affabulatoria, sfrontatezza e genio letterario. Già dalla copertina un disco destinato a fare epoca: Bob e Suzie Rotolo (la fidanzatina del momento cui dedicherà le più belle canzoni) camminano timidi e infreddoliti per le strade innevate del Village; i giovani americani si identificarono subito in loro. Poi il passaggio al rock, la famosa svolta elettrica nel ’65 al Festival di Newport in cui venne duramente fischiato e contestato quando si presentò sul palco con la chitarra elettrica, che portò all’album “Highway 61 revisited”. Nel frattempo il cambiamento stilistico ebbe anche altre conseguenze: i jeans usurati e la camicia da lavoro furono rimpiazzati dal guardaroba da Carnaby Street. Uno di transizione, dopo il grave incidente motociclistico che lo tenne per un po’ lontano da scene e riflettori in un dorato isolamento. Un alone di mistero circonda le circostanze di quell’incidente e la gravità delle ferite riportate. È una fase, questa, di studio anche di se stesso. È a questo periodo che risale la nascita della prolifica amicizia e attività con The Band. La fase, poi, in cui manifestò un certe interesse per le radici della musica americana ( il cajun e il country); un’altra, ancora, della conversione al cristianesimo con conseguente crisi mistico-religiosa oltre che creativa.
Gli ultimi decenni l’hanno visto in un susseguirsi di cadute e risalite con l’alternarsi di lavori buoni con altri meno convincent,i senza mai più raggiungere i capolavori di un tempo. Tra i più recenti si possono ricordare “ Oh mercy” e “ Time out of mind”. All’attività discografica si è accompagnata quella live che lo ha visto in interminabili tournee in giro per il mondo. A gennaio del 1988 è stato inserito nella Rock and Roll Hall of Fame”. Discorso di presentazione di Bruce Springsteen. Ma questa è tutta un’altra storia …
PIETRO BORTOLOZZO