Risolto il problema della poliomelite, l’inizio nei folk-club più sconosciuti: voce e chitarra, birra e locali fumosi. Poi il Festival di Mariposa, i coffee house a Toronto, un matrimonio abbandonato a Detroit e una figlia data in adozione, le buone vibrazioni del Greenwich Village per approdare a fine anni Sessanta in California. Nuove amicizie, nuovi amori e successo tanto da diventare il simbolo della West Coast. Questa è la storia della ragazzina canadese, romantica e sognatrice, che voleva diventare folk singer. E che diventerà la sofistica Lady californiana. Joni Mitchell. Una delle cantautrici più importanti e influenti della storia del rock. “Donna di cuore e di mente”, come lei stessa si definì in una delle sue canzoni più celebri. Un esordio discografico in punta di piedi con interessanti prospettive per il futuro, sotto la protezione del cow-boy psichedelico David Crosby, nel 1968 con l’album omonimo, conosciuto anche come “Songs To A Seagull”. Ballate favolistiche e surreali dai tratti autobiografici. Lucida capacità di analisi e poetica propensione a tradurre in versi le proprie sensazioni. La pubblicazione del secondo lavoro “Clouds” accresce la sua popolarità, così come il terzo, del 1969, “Ladies Of The Canyon”. Immediati i responsi positivi di pubblico e di critica per un concept album incentrato sul tema dell’inadeguatezza e dell’inquietudine esistenziale, trattato con una profonda sensibilità. Versi autobiografici, ironici e malinconici, a tratti tristi. Liriche intense e sincere. Un insieme di acquarelli in canzone. Scrive l’inno ufficiale di Woodstock che CSN&Y portano alla gloria. “Ladies Of The Canyon” rivelò la sua grande abilità compositiva e anche la sua tecnica vocale, il contrasto tra i toni alti e quelli più profondi, resi rochi dal vizio del fumo. Ormai è diventata una star del folk, amata e cercata da molti colleghi. Ha già una manciata di canzoni che l’hanno resa famosa attraverso altri interpreti ed è già un talento luminoso. All’inizio dei Settanta, acquisita la consapevolezza della sua statura di compositrice, la Mitchell raggiunse il suo vertice artistico. I suoi anni Settanta sono un periodo di creatività sublime. Pochi altri in tutta la storia della musica hanno fatto altrettanto. Il primo dei suoi classici è “Blue” del 1971. Il disco più bello, emozionante e struggente del primo periodo. Diario spensierato e divertito di una vacanza in Europa e a Creta con una banda di hippies e nostalgia per l’adorata California. Il tema conduttore il malessere della vita quotidiana, l’analisi di vicende personali e anche dure ammissioni di colpa. Il suo atteggiamento romantico nella ricerca della felicità, che però è impossibile. Il risultato è la perenne malinconia, “Blue” appunto. Il successivo “For The Roses” e il singolo contenuto “You Turn Me On I’m a Radio” del 1972 dimostrano ancora una limpida sensibilità artistica. Oltre che come musicista, Joni continua a esprimersi anche come pittrice. I suoi dipinti, rappresentazioni in immagini di tutto ciò che canta nei suoi dischi, vengono usati come copertine dei suoi album. E’ l’nizio della grande svolta. Nel 1973 viene pubblicato un altro capolavoro “Court And Spark” nonché il suo album di più grande successo commerciale. L’impronta jazz a dimostrare già quella futura tendenza alla sperimentazione. Desiderio e sforzo alla ricerca della felicità. Una sorta di sfida con se stessa. L’album contiene un’altra hit, “Free Man In Paris”. Joni Mitchell si conferma la più “aristocratica” tra le cantautrici, sempre alla ricerca di superare le barriere del folk per approdare nei territori del jazz d’avanguardia. E’ il diario di vita a Hollywood tra party e amanti. Colori e suoni che la partono dritta in classifica. Nel 1975 in “Hissing of Summer Lawns” si allontana dal suo folk confessionale e dalle tematiche personali per un’analisi sociale spiazzando critici e molti fan. Il sound jazz di “Court and Spark” già aveva fatto presagire quel bisogno di novità. E comunque i suoi lavori precedenti, seppur partendo da spunti autobiografici, diventavano esperienze universali. Ora avveniva il percorso inverso: partire dalla realtà sociale degli Stati Uniti, dalle questioni razziali a quelle politiche, per pervenire a personali opinioni. A mettere tutti d’accordo ci pensò nel 1976 “Hejira” il cui titolo fa riferimento alla fuga del profeta Maometto. Il tema conduttore è quello del viaggio, sfruttato con interpretazioni simboliche. Più che dare risposte, invita a farsi domande. Il diario di un viaggio in macchina e in autostop coast to coast e ritorno in cui riaffiorano continuamente ricordi e fantasmi. Molto ipnotico e magico, avvolgente e fascinoso. Ma Hejira resterà l’ultima vera “confessione” di Joni. In compenso le sperimentazioni musicali dei lavori seguenti dimostreranno nuovi e (in parte) nascosti pregi come musicista accanto ad artisti del calibro di Pat Metheny, Jaco Pastorius, Herbie Hancock, Michael Brecker e Charles Mingus. A cominciare da “Mingus” del 1979 e dalla collaborazione con Mingus. Fra tappeti sonori e virtuosismi con un gruppo di famosi emergenti jazzisti l’ulteriore svolta artistica. E sempre dignitosissimi saranno anche i lavori degli anni Ottanta, dal più commerciale “Dog Eat Dog” al più folkeggiante “Chalk Malk In A Rainstorm”. Nei Novanta, con l’eccezione parziale di “Turbolent Indigo” del 1994, la sua vena poetica sembra ormai inaridita. Nel 2002 l’improvvisa e spiazzante decisione di ritirarsi dalle scene. Per fare retromarcia cinque anni dopo, per un nuovo album. Ecco allora, “Shine”, il disco e anche spettacolo e balletto teatrale, illustrato con foto della stessa Mitchell. Dieci brani che non aggiungono granché salvo confermare la classe di una cantautrice capace di flirtare col jazz, di imbastire delicati bozzetti acustici o di declamare versi di Rudyard Kipling con consumata “nonchalance”. La Lady Of The Canyon a 64 anni è ancora in buona forma.
Pietro Bortolozzo